A cura di Silvia (06/2014)
Voto:
Quando ho voglia di storie complesse, ma narrate con estrema
semplicità, un libro di Fitzek difficilmente mi delude. È un
autore furbo ma intelligente - e anche se nei suoi romanzi non trovo
mai passaggi che valgano la pena di essere annotati, o frasi in grado
di trafiggermi il petto - leggerlo mi diverte nel vero senso della
parola.
Mi piace iniziare un suo libro e non capirci assolutamente nulla, mi
piace trovarmi di fronte a enigmi apparentemente irrisolvibili per poi
scoprire che la verità ce l'avevo proprio lì, davanti agli occhi, e mi
piace come la logica e la scienza portino sempre a soluzioni plausibili
per quando incredibili.
In pratica di Fitzek non
amo i personaggi, ma le storie. Storie che sono come dei
complicatissimi rebus e dei cervellotici sudoku. È vero che sentire
sulla pelle le emozioni dei protagonisti è una cosa quasi fondamentale
per me, ma se con i suoi romanzi non succede sinceramente non
m'importa. L'unica cosa che davvero m'interessa è arrivare il prima
possibile all'ultima pagina per dare una risposta alle innumerevoli
domande che mi si sono formate nella mente.
In Schegge
ci troviamo davanti al classico puzzle i cui pezzi sono stati
sparpagliati nel modo più confuso possibile lungo le trecentosessanta
pagine del romanzo, e tocca a Marc, un giovane assistente sociale
laureato in legge, risolvere l'enigma di cui si trova essere vittima e
protagonista. Tutto succede nel giro di poche
ore. Improvvisamente nessuno lo riconosce più, le carte di
credito non gli funzionano, alla scrivania del suo ufficio siede un
altro uomo, e nell'appartamento in cui ha traslocato da poco vive la
moglie morta settimane prima. Il caos regna sovrano, e più Marc cerca di darci un senso,
più i collegamenti con la sua vita vera si spezzano: non
ha un presente a cui aggrapparsi e i ricordi si rivelano inutili e
vigliacchi traditori.
Ed è proprio sui ricordi che Fitzek ci pone un interessante
interrogativo già dalle prime pagine. Cosa
succederebbe se fosse possibile cancellare dalla mente umana tutto il
dolore che la vita ci ha inflitto? Una madre non dovrebbe
piangere la scomparsa di un figlio, una coppia si potrebbe gettare il
divorzio alle spalle senza inutili piagnistei, e l'esistenza di ognuno
di noi si snoderebbe senza pentimenti, rimorsi e sofferenza.
Ma non sono i colpi bassi a renderci più forti? Non sono le lacrime che
abbiamo versato ad averci reso quello che siamo?
Eppure Marc riceve questa agghiacciante proposta da uno strano
individuo e nonostante rifiuti di sottoporsi a un esperimento tanto
folle, perché la sua vita sembra un cubo di rubik dalle facce
scombinate?
Fitzek ancora una volta riesce a coinvolgere e stravolgere il
lettore con capitoli
brevi, caotici e agitati. I colpi di scena si susseguono,
lo stile nervoso - quasi sincopatico - attanaglia e la realtà che si
trasforma e deforma in continuazione sollecita la curiosità e la voglia
di sfogliare una pagina dopo l'altra.
Il finale risistema tutti i pezzi del puzzle.
A Fitzek piace giocare duro, si diverte come un pazzo a osare, vuole
lasciare il lettore a bocca aperta a tutti i costi, e per quanto mi
riguarda ce l'ha fatta. Nonostante l'intrigo risulti un po' forzato,
durante gli ultimi capitoli avevo la mascella all'altezza delle
ginocchia.
A un certo punto ho anche pensato che le trecentosessanta pagine
fossero troppe, Fitzek mi piace perché è incisivo, sa andare subito al
sodo, raramente divaga, mentre in Schegge
la confusione regna sovrana per una cinquantina di pagine di troppo (la
parte centrale l'avrei alleggerita sinceramente), ma sul finale niente
da dire, a mio avviso è a dir poco perfetto.
Forse tra qualche giorno potrei pensarla diversamente, ma scrivo le
recensioni di getto proprio per far prevalere le emozioni alla ragione.
Appena ho chiuso il libro mi sono sentita come quando da bambina andavo
al luna park ed entravo da sola nella casa degli specchi. Ero
disorientata, stranita, quasi impaurita; non sapevo da che parte
girarmi, ogni apparente via d'uscita si rivelava spesso un'illusione,
ma poi, una volta scampata agli inganni del labirinto, mi rendevo conto
di una cosa. Mi era piaciuto. Mi ero divertita. E il punto è
sempre lo stesso. Ovunque
mi porti Fitzek, io mi diverto.